Nel linguaggio quotidiano, l’espressione capro espiatorio è comunemente usata per indicare qualcuno che viene ingiustamente accusato e punito per colpe non sue. Tuttavia, dietro questa formula apparentemente semplice si cela una storia antica, complessa e profondamente radicata nella cultura religiosa e antropologica dell’umanità.
In effetti, il concetto di capro espiatorio affonda le sue radici nella tradizione ebraica, più precisamente nel Levitico, uno dei libri dell’Antico Testamento. Durante il rito dello Yom Kippur, il sommo sacerdote ebraico compiva un rituale di purificazione per il popolo: due capri venivano scelti, uno destinato al sacrificio per Dio, l’altro – chiamato Azazel – veniva simbolicamente caricato di tutti i peccati della comunità e poi liberato nel deserto, come portatore delle colpe collettive. Quest’ultimo animale era il vero e proprio capro espiatorio, incaricato di allontanare fisicamente il male morale dalla collettività peccatrice.
Questo rituale è all’origine dell’espressione latina caper emissarius, letteralmente capro inviato via, che ha dato origine al termine italiano moderno. Con il tempo, il significato letterale ha lasciato spazio a un uso metaforico: oggi il capro espiatorio non è più un animale, ma una persona o un gruppo su cui si scaricano responsabilità, spesso per evitare che le vere cause di un problema vengano affrontate.

Non è un caso che l’idea di capro espiatorio si ritrovi in numerose lingue e culture. In inglese si parla di scapegoat, un termine coniato nel XVI secolo dalla traduzione della Bibbia di William Tyndale. In francese è bouc émissaire, in tedesco Sündenbock (letteralmente “capro del peccato”), e in spagnolo chivo expiatorio. Tutte queste espressioni condividono lo stesso schema: un animale, di solito un capro, associato al concetto di espiazione, di trasferimento simbolico della colpa.
In realtà, questa diffusione linguistica non è solo una curiosità etimologica, ma riflette una dinamica sociale molto diffusa: la necessità di individuare un responsabile tangibile – e spesso innocente – per risolvere tensioni interne, placare conflitti o fornire una spiegazione semplice a fenomeni complessi.
A esplorare in profondità questa dinamica è stato il filosofo e antropologo francese René Girard, che ha dedicato gran parte della sua opera al fenomeno. Secondo Girard, il meccanismo del capro espiatorio è alla base del funzionamento delle società umane. Quando i conflitti interni diventano insostenibili, la collettività tende a indirizzare la propria violenza verso un unico individuo o gruppo, accusato di ogni male. Questo processo, oltre a ristabilire temporaneamente l’ordine sociale, sarebbe anche all’origine di molte istituzioni religiose e culturali.

La teoria di Girard aiuta a spiegare perché il capro espiatorio sia una figura ricorrente non solo nella storia, ma anche nella cronaca contemporanea: si pensi alle minoranze etniche accusate durante crisi economiche, ai politici di opposizione trasformati in bersagli pubblici, o ai lavoratori licenziati per errori sistemici delle grandi aziende. Il bisogno di un colpevole facilmente identificabile resta una costante nelle dinamiche sociali.
Approfondire l’origine e lo sviluppo del termine capro espiatorio ci spinge quindi a riflettere in modo critico sulle dinamiche di colpa e responsabilità all’interno della società. Spesso, anziché cercare soluzioni profonde ai problemi, si preferisce trovare un bersaglio da incolpare ed è per questo che l’uso moderno di questa espressione, pur essendo metaforico, mantiene intatto il suo potere evocativo e la sua funzione di denuncia.
In un mondo in cui l’informazione è rapida- soprattutto grazie ai social media-, il giudizio è immediato e la pressione sociale si fa sempre più intensa, la figura del capro espiatorio ci ricorda quanto sia facile confondere la causa con il sintomo, e quanto sia necessario coltivare uno spirito critico che vada oltre le apparenze.