Parla solo se ciò che stai per dire è più bello del silenzio
Così recita un antico proverbio arabo che, come spesso accade, racchiude in poche parole una verità universale. In un’epoca di logorrea diffusa, di podcast interminabili e vocali di cinque minuti, l’arte di tacere appare desueta, quasi sospetta. Eppure, ci sono momenti in cui il silenzio non è solo d’oro, ma è l’unica scelta sensata, elegante e strategica.
Innanzitutto, tacere è segno di intelligenza emotiva. Se una persona ci racconta una difficoltà – la morte di un parente, un licenziamento inatteso, una delusione cocente – la tentazione più umana è colmare l’imbarazzo con frasi fatte, aneddoti personali o consigli rapidi e indolori. Tuttavia, in simili contesti, le parole raramente consolano. Anzi, rischiano di sembrare una fuga dalla vulnerabilità dell’altro. Un silenzio partecipe, accompagnato da uno sguardo che comunica presenza, vale più di mille esortazioni maldestre. È proprio per questo che, secondo alcuni studi, chi padroneggia l’ascolto attivo viene percepito come più empatico e più competente.
Inoltre, da un punto di vista puramente professionale, la scelta di tacere potrebbe servire a non mettere a rischio la propria reputazione. Durante una riunione, parlare per riempire vuoti o dimostrare di essere informati può rivelarsi controproducente: talvolta, il silenzio strategico permette di osservare dinamiche, studiare reazioni, intuire giochi di potere e comprendere meglio le reali intenzioni degli interlocutori. Non è un caso che, nei manuali di leadership, si suggerisca di parlare meno e ascoltare di più: chi tace sceglie di non sprecare parole che potrebbero ritorcersi contro.

Un terzo contesto in cui il silenzio diventa alleato è quello della rabbia. Se siamo furiosi, il rischio di pronunciare frasi di cui pentirsi è altissimo. In tali momenti, la lingua diventa un’arma affilata che, per soddisfazione momentanea, può infliggere ferite permanenti. Tacere quando si è arrabbiati non significa reprimere le emozioni, bensì attendere che la mente torni limpida, evitando di dire parole che non si potranno più cancellare.
Tuttavia, la scelta del silenzio non è sempre dettata da altruismo o autocontrollo: come già detto, spesso, si tratta di pura strategia comunicativa. In un negoziato, ad esempio, il silenzio dopo un’offerta induce spesso l’interlocutore a riempire quel vuoto con ulteriori concessioni o chiarimenti.
A tal proposito il linguista e psicologo Michael Argyle parlava di pause significative per indicare quelle sospensioni in cui la comunicazione non si interrompe, ma cambia registro: dal verbale al non verbale, dall’espressione diretta all’attesa carica di messaggi impliciti.
Esiste poi un altro motivo, più filosofico, per scegliere di tacere: il rispetto per la complessità delle cose. Di fronte a questioni che non conosciamo a fondo, tacere è segno di umiltà intellettuale.
Al riguardo, l’antropologo Gregory Bateson sosteneva che il sapere autentico nasce dalla consapevolezza della propria ignoranza. Ogni qualvolta sentiamo il bisogno di esprimere un’opinione su tutto, ricordiamoci che il mondo non ha bisogno del nostro commento ininterrotto.
Naturalmente, tacere non significa cedere alla passività. Esistono momenti in cui parlare è dovere morale: per difendere un collega vessato, per denunciare un’ingiustizia, per dichiarare la propria idea ed affermare la propria identità. In questi casi vale sempre la regola che restare in silenzio equivarrebbe ad avallare un torto.
Per tutte queste ragioni e per molte altre, in linguistica si studia il silenzio come parte integrante della comunicazione. Le pause, i vuoti, le esitazioni, i sospiri, persino il non detto costituiscono segmenti significativi del discorso. Paul Grice, con il suo principio di cooperazione, spiegava come le massime conversazionali possano essere violate strategicamente, ad esempio scegliendo di non rispondere per segnalare dissenso, imbarazzo o superiorità. Un silenzio, dunque, può trasmettere più informazioni di un discorso di mezz’ora.
In conclusione, come ogni potente strumento umano, anche la parola trova la sua forza nell’alternanza con la quiete perché – ed è bene ricordarlo- tacere non è un segno di debolezza o disinteresse ma, piuttosto, si tratta di un atto di rispetto, di ascolto, di riflessione. È la scelta di chi comprende che il linguaggio non è fatto solo di fonemi e sintagmi, ma anche di spazi vuoti, necessari per dare senso e ritmo alle nostre vite.
Dopotutto, come ricordava Lao Tzu: Chi sa non parla. Chi parla non sa.
E forse, almeno una volta al giorno, dovremmo ricordarcelo, per lasciare che il silenzio ci insegni ciò che nessuna parola saprà mai spiegare.