Nel 2017 la classicista Emily Wilson pubblicò la sua traduzione dell’Odissea di Omero in inglese. In Inghilterra -ovviamente- non era la prima traduzione dell’opera, ma era la prima firmata da una donna, per cui questa notizia fece discutere studiosi e lettori, portando a una domanda interessante: cosa cambia quando un testo viene tradotto da una donna invece che da un uomo?
Ormai sappiamo che tradurre non significa solo trasporre le parole da una lingua all’altra. È un processo fatto di scelte: cosa evidenziare, cosa attenuare, come rendere un termine carico di cultura e storia. Ed è proprio in questo senso che la traduzione di Emily Wilson appare più chiara e precisa.
Un esempio riguarda il famoso aggettivo con cui Omero apre l’Odissea, polytropos. Molti traduttori uomini hanno reso questo termine con wily (astuto, scaltro) o man of twists and turns (uomo di giri e rigiri), sottolineando l’astuzia di Odisseo. In Italia, addirittura, si parla di uomo dal multiforme ingegno, per sottolinearne non solo l’astuzia ma anche la poliedricità.
Wilson invece sceglie una traduzione all’apparenza più semplice: complicated man, ovvero uomo complicato.
In realtà, questa scelta lessicale mette in luce non solo l’intelligenza, ma anche la complessità morale e psicologica di Odisseo, restituendolo come personaggio umano, pieno di contraddizioni ed anche difetti, togliendogli un po’ di quell’aurea da uomo mortale ma quasi perfetto delle traduzioni precedenti.

Ed ecco qui che, per contrapposto, la studiosa si occupa anche di un nuovo aspetto: aspetto il modo in cui vengono nominate le donne. In effetti, Wilson osserva che molte traduzioni attenuano la realtà della schiavitù, usando termini come maids (cameriere) o servants (servitrici). Lei invece traduce con precisione il termine greco δμῳαί (dmōai) come ragazze schiave, evidenziando la loro condizione reale.
Si tratta in questo caso di una scelta che non è solo linguistica, ma anche etica: ci ricorda che queste donne non erano libere, e che le loro azioni avvenivano dentro rapporti di potere e sottomissione.
Nella sua traduzione, una delle differenze più discusse riguarda un passaggio verso la fine dell’Odissea, quando Odisseo ordina di uccidere le schiave che hanno avuto rapporti con i Proci.
Qui, molti traduttori maschili hanno usato termini come prostitute o donne di facili costumi, parole giudicanti che non sono affatto presenti nel testo greco che rimanda semplicemente alle ragazze schiave che hanno dormito con i pretendenti, esattamente come traduce la Wilson, senza aggiungere insulti o giudizi morali. Questo perché nel testo originale non esiste una condanna morale verso di loro: queste ragazze non avevano scelta, erano schiave costrette a obbedire. Cosa molto frequente nell’antica Grecia e non nell’epoca in cui hanno vissuto i vari traduttori.
Inoltre, Emily Wilson si distingue anche sul piano dello stile.
Se ci facciamo caso, possiamo notare che molte traduzioni cercano di imitare l’epicità omerica con parole arcaiche, creando distanza dal lettore moderno. Lei invece usa un linguaggio semplice e diretto, senza rinunciare alla fedeltà filologica. Ha scelto di tradurre l’Odissea in pentametri giambici, un ritmo regolare in inglese che restituisce la musicalità dell’esametro greco, senza eccessi poetici che possano appesantire la lettura.

Ma cosa significa tutto questo sul piano linguistico e culturale? Wilson stessa afferma che non esiste un modo maschile o femminile di tradurre, ma ogni traduttore è influenzato dalla propria esperienza, cultura, educazione e genere. Questi elementi plasmano il modo in cui si interpreta un testo.
La sua traduzione è stata definita “rivoluzionaria” perché riesce a liberare l’Odissea dai filtri culturali accumulati nei secoli, soprattutto da letture maschili che enfatizzavano l’eroismo di Odisseo e minimizzavano la sofferenza delle donne intorno a lui. Con le sue scelte, Wilson offre al lettore un testo che rende giustizia non solo al protagonista, ma anche ai personaggi marginali, dando voce a chi è stato silenziato dalla storia e dalle traduzioni precedenti.
Il lavoro di Emily Wilson dimostra che tradurre non è un atto neutro. Ogni parola scelta crea un significato e ogni significato trasmette una visione del mondo. Le differenze tra traduzioni uomo e donna non derivano da caratteristiche innate, ma dalla diversa attenzione linguistica, culturale e sociale. Grazie a traduzioni come la sua, possiamo riscoprire i classici con occhi nuovi e capire che la traduzione è sempre, in parte, un atto di interpretazione e di potere.

