Quali sono le parole che vendono? Vi portiamo in un Viaggio nel linguaggio della Pubblicità

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Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, ha pensato di odiare le pubblicità.
Sì, perché -diciamola tutta- a volte sono davvero ridondanti e noiose. “Un tempo sì che le pubblicità erano belle!” si sente spesso dire. E, personalmente, penso che sia davvero così.

Ma prima ancora di giudicarle, vale la pena chiedersi da dove arrivano. Perché se oggi ci sembrano invadenti, è anche perché ci accompagnano da sempre.
Pensare che la pubblicità sia una “moda recente” è difatti un errore comune. In realtà, già nell’antico Egitto, il testo di un papiro annunciava la fuga di uno schiavo pubblicizzando, nel frattempo, una bottega di tessuti. Un messaggio che potremmo considerare una primitiva forma di copywriting: combinava informazione e promozione, anticipando la doppia funzione che il linguaggio pubblicitario avrebbe mantenuto nei secoli.

Anche in altre epoche e culture, il bisogno di farsi notare ha trovato forme linguistiche creative. In Cina, ad esempio, i venditori ambulanti usavano flauti di bambù: non v’era un testo scritto, ma un codice sonoro associato a un significato. Una sorta di brand sonoro ante litteram.

Con il passaggio dalla voce alla parola scritta, il linguaggio pubblicitario vive una svolta decisiva poichè l’invenzione della stampa lo rende riproducibile, standardizzabile. Nascono i primi annunci sui giornali: testi brevi, spesso costruiti su imperativi (“Non perdere l’occasione!”, “Solo per oggi!”) che resistono ancora oggi.

Poi, nel XIX secolo, la diffusione dei giornali e l’urbanizzazione offrono alla pubblicità terreno fertile per svilupparsi. Le agenzie pubblicitarie iniziano a trattare il linguaggio come strumento strategico: non basta più informare, ora bisogna persuadere. Il lessico si fa più mirato, il tono si calibra in base al pubblico, e si ricorre a figure retoriche come allitterazioni, iperboli, anafore. Il messaggio diventa evocativo, emozionale, capace di restare nella memoria.

Vecchio cartellone del brand Coca Cola

Quando poi i social media si evolvono e nascono radio e televisione, ecco che ancora una volta la comunicazione pubblicitaria muta. Il linguaggio scritto si intreccia a quello audiovisivo: voce, suono e immagine si fondono. Gli slogan si fanno musicali, ritmici, memorabili. Frasi semplici suggeriscono abitudini, evocano normalità, creano un universo valoriale condiviso.

Dalla seconda metà del Novecento, la pubblicità diventa fenomeno culturale. Si contamina con il linguaggio letterario, cinematografico, persino filosofico. Gli slogan entrano nel parlato quotidiano, diventano modi di dire, e la lingua – piegata a esigenze persuasive – a sua volta plasma la cultura di massa. È un dialogo continuo tra mercato e linguaggio, tra società e parola.

Fino all’avvento del digitale, quando la pubblicità diventa conversazione.
Internet e social media impongono uno stile comunicativo più rapido, diretto, colloquiale. I brand adottano emoji, meme, hashtag, si rivolgono ai consumatori con tono amichevole, spesso ironico. Ma dietro a questa apparente spontaneità, si nasconde un attento lavoro linguistico. Ogni parola è scelta per suscitare empatia, urgenza, desiderio. Il messaggio deve sembrare naturale, ma essere chirurgico.

Strategia di Marketing

Oggi, addirittura, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi, il linguaggio pubblicitario si personalizza e cambia in base a età, gusti, comportamenti, emozioni percepite. Si moltiplicano i registri, si sperimenta, ma la sfida resta invariata: trovare la parola giusta, al momento giusto, per la persona giusta.

Naturalmente, le pubblicità non “parlano” tutte allo stesso modo. Le differenze linguistiche e culturali influenzano profondamente stile e contenuti. In Italia, ad esempio, prevale una comunicazione narrativa e affettiva: si punta su famiglia, convivialità, calore. Famosi marchi di merendine, pasta e caffè costruiscono storie emotive, con un linguaggio spesso poetico e suggestivo che mira a instaurare una relazione “sentimentale” con il consumatore.

Nei Paesi anglosassoni, invece, il linguaggio tende a essere più diretto e pragmatico. Lo slogan è incisivo, minimalista, e spinge all’azione. Just Do It o Think Different, ad esempio, incarnano perfettamente questa mentalità.

Ma queste differenze non sono solo stilistiche. Parlano di valori, di modelli di consumo, di relazioni con il linguaggio stesso. E’ proprio per questo che, quando una pubblicità viene tradotta, non basta passare da una lingua all’altra: serve interpretare i sottintesi, adattare le metafore, rispettare le aspettative culturali del pubblico.

Perché le parole vendono, ma prima ancora raccontano, rassicurano, seducono. E seguire l’evoluzione del linguaggio pubblicitario, in fondo, ci offre uno specchio di come siamo cambiati anche noi – nel modo di comunicare, di pensare, di desiderare. Come individui singoli e come società.

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